Come possiamo rendere più efficaci i processi di trasformazione dei territori? Ne abbiamo discusso durante un’occasione di dialogo per orientare organizzazioni e reti nella trasformazione culturale dei luoghi, patendo dall’ascolto e dai bisogni delle comunità.
Come possiamo rendere più efficaci i processi di trasformazione dei territori? Ne abbiamo discusso durante un’occasione unica di ascolto, dialogo e scambio di esperienze, suggestioni e visioni per orientare organizzazioni e reti nella trasformazione culturale dei luoghi, patendo dall’ascolto e dai bisogni delle comunità.
A luglio, presso la Reggia di Venaria Reale, si è tenuta la prima edizione di “Bussola – Tracciando nuove rotte”: due giorni intensivi di riflessione, confronto e networking organizzato da Hangar Piemonte per chi opera in campo culturale che ha coinvolto istituzioni, policy makers, operatori e operatrici culturali nazionali e realtà del territorio piemontese.
All’interno della propria missione “Progettare in ascolto”, la Fondazione per l’architettura / Torino affianca Hangar Piemonte sui temi della trasformazione dei luoghi di cultura a partire dai bisogni delle comunità di riferimento. L’esperienza è stata un’occasione importante per avvicinare le persone al tema della partecipazione e della qualità del progetto di architettura. Crediamo infatti che una pluralità di sguardi permetta di cogliere al meglio la complessità della realtà che ci circonda e che il dialogo sia l’unico strumento per giungere davvero ad una visione condivisa di futuro.
Da questo appuntamento è nata una pubblicazione ora scaricabile e consultabile, a cui anche la Fondazione ha contribuito, che raggruppa i tanti interventi degli esperti presenti e le riflessioni emerse dai tavoli di lavoro.
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Il dialogo come strumento cognitivo
Il dialogo non è un semplice confronto fra diverse opinioni e visioni ma un’occasione di osservazione attiva per lo studio e la comprensione di comportamenti e di abiti sociali. Proprio questa sua seconda accezione ci permette di designarlo come strumento per la ricerca di nuove conoscenze e procedura co-progettuale. Intendiamo infatti la dialogicità come forma di comunicazione sociale e, al contempo, importante strumento cognitivo indispensabile nelle esperienze di co-progettazione specie nei progetti che riguardano temi di innovazione sociale e design dei servizi, dove l’attenzione al risultato finale lascia ampio spazio alla riflessione sui bisogni e all’ideazione di nuove forme di relazione e partecipazione fra i membri di una comunità.
La persona è comunità, in quanto il suo pensiero si forma all’interno di una dimensione collettiva. Entrare in un rapporto di dialogicità con il singolo ci permette una riflessione che ha dei risvolti molto più ampi, a patto che il presupposto al dialogo sia quello dell’esplorazione, esponendo dunque mittente e ricevente alla sorpresa, alla nascita di altri significati possibili e alla scoperta di nuovi orizzonti.
Il dialogo richiede l’attraversamento dei reciproci confini e la disposizione all’apertura quale forma di ricerca dell’alterità. Solo in questi casi diventa strumento efficiente nella co-progettazione. Occorre dunque abbandonare le proprie convinzioni perché la dialogicità mette in crisi il pensiero individuale. Il pensiero collettivo, al contrario, si apre alla scoperta e all’invenzione. Senza questi presupposti le pratiche di open source, inteso come condivisione della conoscenza, e di social innovation non sarebbero possibili, perché sono processi che di per sé sfruttano le potenzialità cognitive del dialogo per una corretta e plurale interpretazione dei problemi e per la conseguente ricerca delle soluzioni.
L’architettura è cultura di comunità
“La conoscenza non è possibile senza comunicazione. In questo senso si può dire che il dialogo precede il linguaggio e lo genera”
(Lotman J.M.)
La breve ricognizione sulle buone pratiche dialogiche ci permette di mettere a fuoco alcuni aspetti dell’esperienza portata avanti insieme ad Hangar Piemonte, basata appunto sul dialogo e sull’ascolto dei bisogni della comunità per la progettazione di luoghi di cultura, espressione significativa di una collettività.
Questa tipologia di dialogo si manifesta tra l’architettə, professionista specifico, e genericз committenti, che possono essere competenti in innumerevoli altri ambiti professionali, accumunatз da una precisa caratteristica: sono tuttз abitanti di un luogo. Nella relazione dialogica la parola dell’architettə ha una propria grammatica e, per essere correttamente recepita, richiederebbe un certo grado di competenza anche da parte dellз riceventi. L’architettə, dunque, deve farsi portatore di un messaggio del quale lз riceventi sfiorano appena la superficie. Ma è davvero così? Chi può essere più competente in merito a un luogo se non l’effettivə abitante dello stesso?
Il ruolo della committenza è un tassello fondamentale per la buona riuscita di un progetto e rappresenta un fattore cruciale per la promozione di architetture di qualità. Se lə committente acquisisse una maggiore consapevolezza sulle pratiche che mirano ad un’architettura di qualità e, soprattutto, su cosa garantisca la qualità dell’architettura, probabilmente il messaggio sarebbe veicolato come meno difficoltà. Questa consapevolezza potrebbe rendere lə cittadinə ancora più attivə perché sarebbe in grado di comprendere a pieno quanto lo spazio costruito determini le nostre emozioni e quindi la qualità della vita. Solo così sarà possibile per tuttɜ effettuare delle scelte improntate al benessere personale ed esigerle per una felicità collettiva. Perché ciò accada l’architettə deve essere riconosciuto nel suo ruolo di agente culturale. Lɜ architettɜ sono storicamente artefici di comunità attraverso l’atto materiale e culturale del costruire le città; l’architettura è inoltre espressione basilare delle culture, l’ambiente che ci circonda genera infatti sentimenti di appartenenza e stimola processi d’identificazione.
Diventa altresì necessario accompagnarsi alla voce di realtà, come la Fondazione o Hangar Piemonte, impegnate a divulgare il valore culturale e sociale dell’architettura, perché possa diventare linguaggio comune, parola unilateralmente compresa, parte di ogni nostro agire quotidiano e contenitore delle nostre vite.
Ascoltare i luoghi: la professione
“Dimmi, poiché sei così sensibile agli effetti dell’architettura, non hai osservato, camminando nella città, come tra gli edifici che la popolano taluni siano muti, ed altri parlino, mentre altri ancora, che son più rari, cantano? E non il loro ufficio, né il loro aspetto d’insieme così li anima o li riduce al silenzio, ma ingegno di costruttore.”
(Da Eupalino o l’architetto, Paul Valéry)
L’architettura ha delle caratteristiche che ci permettono un paragone con la musica. Immaginiamo uno spartito musicale, allo stesso modo i segni e i simboli dell’architettura sono in grado di parlare all’animo dell’uomo, ma egli può comprendere pienamente la loro astrazione solo se ne conosce i codici linguistici, le chiavi di lettura. Il fruitore che non ha questa specifica competenza entra comunque in relazione con lo spazio costruito ma attraverso forme empatiche, a volte inconsce. I simboli architettonici condizionano molti aspetti della vita delle persone: l’espressione del loro stato d’animo, il carattere, la dimensione culturale.
All’architettə spetta invece il compito di intraprendere una forma di dialogo sapiente con la disciplina: non solo deve saperne decifrare i simboli, deve conoscere lo strumento scelto e, nei casi più felici, avere una sua personale e unica capacità creativa tale da rendere il suo lavoro memorabile.
Se da una parte l’architettə è in un necessario rapporto dialogico con lə committente, al contempo si trova immerso in un’ulteriore comunicazione molto particolare: si pone in ascolto dei luoghi decodificando un linguaggio che appartiene esclusivamente alla sua professione.
Per concludere possiamo affermare che l’architettə, progettando un luogo dell’abitare, si predispone a riunificare in un armonico risultato tre differenti voci, la sua in quanto professionista chiamato a creare, quella del luogo sul quale interviene, e quella della collettività che lo coinvolge nell’appagamento di un desiderio e lə conferisce uno scopo: ed è proprio nell’ascolto che troverà lo spazio per rendere feconda la parola.
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Bohm, D., 1996, On Dialog, London-New-York, Routledge; trad. it. a cura di P. Biondi, Sul dialogo, Pisa, Ets 2014.
Lotman, J.M., 1984, “O semiosfere”, in “Trudy po znakovym sistemam”, n. 17, trad. it. a cura di S. Salvestroni in La semiosfera: asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Venezia, Marsilio 1985
Valery P., a cura di B.Scapolo, 2011, Eupalinos o l’architetto, Mimesis
Zingale, S., a cura, 2005, La semiotica e le arti utili in undici dialoghi, Bergamo, Moretti&Vitali.
Zingale, S., a cura, 2005, Verso un metodo dialogico. Il dialogo come strumento di conoscenza e di progetto, in EC rivista dell’associazione italiana studi semiotici, n. 2.
Per ottenere una copia della pubblicazione, vai a questo link (https://shorturl.at/GDfZs)