Attraverso esempi chiarissimi Elena Granata ha fatto capire al pubblico di Face to Face che lo spazio intorno a noi conta: influisce sulla nostra crescita, determina il nostro benessere, ci rende felici o infelici, incide sui nostri stati psichici.
Attraverso esempi chiarissimi Elena Granata ha fatto capire al nostro pubblico che lo spazio intorno a noi conta: influisce sulla nostra crescita, determina il nostro benessere, ci rende felici o infelici, incide sui nostri stati psichici.
Giovedì 13 giugno si è infatti tenuto da Ultraspazio il terzo appuntamento di Face to Face, che ha ospitato l’autrice, professoressa associata di Urbanistica presso il Dipartimento di Architettura e Studi urbani del Politecnico di Milano e docente presso la Scuola di Economia Civile. L’incontro si è aperto col cortometraggio Docking di Spade Hung and Wingchun Cheng, selezionato da ArchiTuned, che esplora i vari aspetti della resilienza in una città.
Elena Granata ha parlato proprio del rapporto tra esseri umani e città: per lei l’architettura corrisponde all’idea di ripensare gli spazi partendo dalla vita delle persone. Negli ultimi cinquant’anni, tutte le discipline che si occupano del funzionamento del nostro cervello hanno confermato che lo spazio è una determinante fondamentale per il nostro benessere. Però, se guardiamo le nostre città oggi, ci accorgiamo che quella che è cresciuta è la ricchezza, non la felicità.
Per questo motivo fare attenzione alla componente del to care è importante nella progettazione di uno spazio. Spesso, quando si insegna architettura, si pensa solo alla funzionalità di un luogo, ma fare caso alla sua dimensione psico-relazionale porta a creare uno spazio ricco di umanità, che ricorda che la vita è bella. Come possiamo quindi creare dei luoghi pensati per le persone?
Abbiamo ereditato dall’Ottocento una cultura suddivisa per scatole, per silos: a ogni funzione della nostra vita corrispondeva un contenitore adeguato. Nell’era moderna abbiamo capito che, in realtà, queste suddivisioni non sono più adatte ai nostri bisogni e soprattutto alla nostra immaginazione. È qui che entra in campo il placemaker, vale a dire quella persona che sviluppa un’intelligenza connettiva, non collettiva, quel tipo di professionista che è in grado di unire i puntini tra di loro.
Al giorno d’oggi è quindi indispensabile che questi contenitori stagni si spacchino, che si metta in atto il placemaking, ossia la trasformazione e riplasmazione dello spazio. I placemaker, che vedono quello che nessuno vede, sono in primis persone felici, perché non si può creare felicità per le altre persone se noi stessi non siamo “nella gioia”. Questo tipo di sensibilità è una vera e propria dimensione progettuale, che cambia il mondo e riesce a rovesciare i luoghi. Perché noi, come esseri umani, siamo situati nello spazio e se impariamo ad ascoltarci il nostro modo di progettare i luoghi cambierà, rendendoli posti di cura in cui saremo felici di tornare.
Building Happiness è un progetto promosso dalla Fondazione per l’architettura / Torino reso possibile anche grazie a:
Contributor: Fondazione Compagnia di San Paolo, Camera di Commercio di Torino
Sponsor Gold: Dierre, Fresia Alluminio, Idrocentro
Sponsor Silver: Ceramica Mediterranea, Sikkens, Traiano Luce
Foto di Marco Campeotto.