L’assenza di distanza storica, di una letteratura tecnica e di un’ampia casistica rende particolarmente complesso il restauro del Moderno. Ne abbiamo parlato con Emilia Garda in avvicinamento al corso dedicato alle architetture olivettiane.
Gli edifici olivettiani di Ivrea rappresentano una testimonianza inestimabile di come architettura e urbanistica possano rispondere in modo armonico e responsabile alle esigenze economiche, sociali e culturali del territorio, ponendo l’individuo sempre al centro del progetto.
Pur appartenendo a un passato recente, anche questo patrimonio comincia a necessitare di interventi di conservazione, restauro e valorizzazione, motivo per cui venerdì 9 e sabato 10 marzo vi proponiamo il corso specializzante Le architetture olivettiane e il Moderno, promosso con la Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Torino e la Fondazione Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale”.
Per entrare nel merito del corso e per comprendere appieno l’importanza e le peculiarità della conservazione di queste architetture, abbiamo intervistato Emilia Garda, professore associato di Architettura tecnica presso il Politecnico di Torino, coordinatrice per il Piemonte di Docomomo Italia e docente del corso.
- Perché è importante occuparsi del restauro e della conservazione del Moderno?
L’eredità materiale del Movimento Moderno costituisce un patrimonio importantissimo sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Inizialmente sorte ai margini della città, all’interno degli ampliamenti dei primi decenni del Novecento, le architetture del razionalismo italiano oggi sono spesso inglobate nei centri storici e assumono di conseguenza un valore strategico.
Tuttavia questo patrimonio è rimasto, soprattutto in Italia, a lungo dimenticato o volutamente gettato nell’oblio a causa della sua coincidenza temporale con la dittatura fascista. Così per molti anni una sorta di “censura culturale” ha pesato negativamente sulla conservazione di opere che presentano indubbi elementi di innovazione tipologica e tecnologica e che, soprattutto, sono testimonianza di una grande attenzione dei progettisti nei confronti dei temi sociali.
- Cosa differenzia gli interventi sul Moderno rispetto agli interventi su architetture di altri periodi?
Paradossalmente il restauro del Moderno, in quanto disciplina recente (i primi interventi di restauro risalgono agli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso) appare per gli operatori più complicato del restauro del premoderno.
Manca ancora una distanza storica che consenta di approcciarsi al tema senza pregiudizi o tabù. Manca la letteratura tecnica, o meglio la letteratura tecnica è ancora in formazione o comunque non ha raggiunto ancora il livello di sedimentazione pari a quella relativa al restauro del premoderno. Infine, manca una casistica di interventi sufficientemente vasta da permettere di valutare sia in positivo che in negativo le scelte effettuate.
Gli edifici del Movimento Moderno inoltre soffrono di una “fragilità intrinseca” che li rende inermi di fronte alla prova del tempo: la costruzione moderna si affida infatti a materiali spesso “sperimentali ma non sperimentati” che non hanno retto l’inevitabile obsolescenza e hanno tradito le intenzioni dei progettisti.
- Quali sono le competenze e le nozioni che non possono mancare a un professionista che interviene sul Moderno?
Come per qualsiasi intervento sull’esistente, anche chi si approccia al restauro del Moderno dovrà avere una profonda cultura del costruito, della storia dell’architettura, delle tecniche e dei materiali impiegati anche per quanto riguarda la loro composizione chimica, ma, soprattutto, dovrà indagare i messaggi che si volevano veicolare attraverso determinate scelte compositive e dei materiali.
Il tipo di approccio è molto simile a quello adoperato in medicina attraverso i concetti di “anamnesi”, “diagnosi” e “prognosi”: si indaga l’intera vita dell’edificio, dal progetto al cantiere, dalle varianti in corso d’opera fino agli interventi di restauro precedenti, con l’obiettivo di distinguere l’invecchiamento fisiologico da quello patologico e mettere a punto un intervento di restauro appropriato e consapevole.
La partecipazione al corso prevede 12 CFP e le iscrizioni chiudono il 19 febbraio; clicca qui per i dettagli del corso.