Elisa Leoni della Scuola Holden ci racconta Soave sia il vento, il progetto che ha trasformato la facciata di un edificio in un’opera d’arte.
Un alto e imponente palazzo che si trova alle spalle della galleria Franco Noero, nel quartiere torinese di Barriera di Milano, è stato trasformato dall’artista venezuelano Arturo Herrera in un’opera d’arte. Grazie al coinvolgimento degli abitanti del condominio, l’intervento ha sostituito alla regolare trama di balconi del retro dell’edificio con un collage di stampe su stoffa che ritraggono ballerini su sfondi dalle tinte vivaci, trasformando così il palazzo in una stereoscopica opera di immagini variopinte che si muovono nel vento. Elisa Leoni, studentessa della Scuola Holden, ci racconta questa metamorfosi attraverso gli occhi di tre condomini dell’edificio.
Presentazione del progetto di Arturo Herrera “Soave sia il vento”
Giuseppe Di Pinto, 7° piano
«La gente, sai, ha le sue teorie», dice Giuseppe Di Pinto. È seduto al tavolo davanti a me, nel suo bomberino rosso, un braccialetto di caucciù con piastrina sul polso destro, 44 anni portati con energia e l’accento arrivato, una vita fa, dalla Puglia.
«Si fissa, la gente, era pur sempre una cosa nuova che entrava in casa, c’era un po’ di diffidenza qua è là. Ma comunque, chi ho potuto coinvolgere, ho coinvolto. Sono andato a far da tramite porta a porta, mi conoscono e di me si fidano, ho spiegato: “Mettetela perché merita”. Fine. Ho fatto la mia parte, sono stato io il primo ad appenderla, c’era l’artista sotto, tutto contento, che guardava in su. Di cose così, a Torino, mica se ne trovano. Hanno tutti le tende verdi, che poi dentro sono al massimo a fiori, quelle con le mimose. Elefanti non ne vedi, figuriamoci ballerine».
Di Pinto sa tutto, sulle tende: di mestiere è ferramenta, assieme al figlio. E col figlio vive al settimo piano di Corso Novara 87. Sono loro due soli. Loro due, più due incantevoli gambe di ballerina alla finestra. Lui ammicca: «Proprio belle, sì, blu, mi rivestono tutto, cucina e camera da letto. Peccato non siano idrorepellenti, io l’ho detto all’architetto: così con la pioggia diventa un mattone, come quando stendi i jeans bagnati. D’inverno la devi togliere, non la puoi mica tenere. Anche se bisogna dire che la stoffa è buona, io ho raccomandato di sceglierla con un certo criterio, di un certo spessore, se no vola dappertutto». Con la bella stagione, piogge permettendo, la rimetterà senz’altro.
«Poi, ecco, la gente ha le sue manie, alcuni dicono che scurisce, che soffoca. Certo, dentro il riverbero del sole è filtrato, ma a me non dà fastidio. Fosse per me le prenderei da vendere in negozio, basta convincere gli amministratori dei condomini ed è fatta».
Di Pinto ha capito subito la bellezza, l’ha riconosciuta in fretta. «Sai, sembrano dei quadri, viste da lontano. Una parete bianca raffigurata con tante immagini, come quella di un alloggio, ma con i dipinti sul muro. Piace, certo che piace. A chi non piace?».
Carolina Bianchini, 3° piano
La signora Bianchini è minuta, con le chiavi in mano, nel portone del civico 85 dov’è ferma ad aspettarmi. Ha una camicia di jeans sotto a un pile blu, i capelli corti e un accenno di imbarazzo nelle spalle. «Venga, venga, andiamo su che le faccio vedere».
Su è il terzo piano. Bisogna uscire da casa sua, scendere una rampa di scale e poi aprire la porta del balconcino. Una ballerina di cui si intravede il tutù danza su fondo arancione. La signora Bianchini ha legato entrambi i lembi con delle stringhe verdi, che ora incorniciano l’opera di Herrera con un’infiocchettata precisione svizzera. «Così non si muove, resta bella dritta. Poi ci sono i colombi, fanno ‘sta schifezza, e io sempre a pulirla».
La signora Bianchini ha 83 anni. È marchigiana, ma l’accento dice torinese. È venuta qui quando aveva 12 anni. E io resterò in casa sua per un’ora. Ci sarà tempo di ripercorrere tutta la storia d’Italia, dalla tessera fascista all’impiego nella Fiat degli anni d’oro, dalla fame di quando una padrona non le faceva fare colazione alle 30mila lire al mese di stipendio. Fino ai 900 euro di pensione oggi. La signora Bianchini non si è mai sposata: «Ma sto tanto bene sa, e poi non è che non mi sono divertita, andavo pur sempre al mare con le amiche».
E poi, ha almeno tre nipoti. Che sono quelli che vedo nelle foto. Va di là a prenderle, mentre io contemplo le superfici linde di una casa arredata decenni fa, impeccabile. C’è tutto un album delle sue vacanze a Capoverde, con lei davanti a un mare cristallino e il nipote con la sua ragazza dalla pelle scura. È bellissimo vederla raccontare. «Comunque sei simpatica, è per quello che ti ho detto tutte queste cose». Quando vado via è a malincuore. Lei si stringe nelle spalle e mi raccomanda: «Dimmelo quando parli che vengo a vederti, eh».
Kamal, 7° piano
Kamal è a Torino da ottobre scorso, vive in Corso Novara 83 da novembre. Ha i tratti dell’Africa del nord e una giacca impeccabile della North Sails. Sciarpa annodata al collo come un manager di borsa, una delle due braccia elegantemente appoggiata allo schienale della sedia. Ride spesso nei suoi 35 anni, viene dal Marocco e parla un italiano perfetto. Con l’accento toscano che Firenze, dove ha abitato per 23 anni, gli ha lasciato addosso. Lavora per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che l’ha mandato qui, da solo, nella nebbia torinese. Dice: «È un mestiere tosto e bello, quando collabori con lo Stato, però è così: devi spostarti».
Kamal ha trovato la tenda come un regalo di benvenuto, nel suo piccolo appartamento al settimo piano. Rosata, con un danzatore sospeso nell’aria che protegge il terrazzino accanto alla cucina. Ai tempi dell’università, Kamal faceva la guida turistica a Firenze. Così, è stato contento di trovare ad accoglierlo un’installazione di Herrera. «Ancora più bello sarebbe stato averla su una delle stanze della casa: alla mattina, a colazione, la contempli e il mondo, dietro, sotto, diventa più poetico». Kamal inclina la testa come a immaginarsela: «Magari la faccio spostare».
Poi guarda fuori dalla finestra: «C’era mia mamma che faceva queste tende speciali. Le ricamava, per giorni. Ci cuciva barchette, disegni piccini. Le ha regalate al figlio della mi sorella, quand’è nato. Per accoglierlo meglio, ha detto. Io non ci avevo mai pensato, ma vederla lì, nella cameretta di un bambino, cambiava tutto. Quando guardavi fuori, da dentro la culla, guardavi attraverso quel disegno aggraziato. Ed era come insegnare anche al bimbo, da subito, a osservare la vita dalla prospettiva migliore. Quella della poesia».
Elisa Leoni
Scuola Holden