L’intervento di riqualificazione del Parco Peccei è protagonista del racconto della studentessa della Scuola Holden Natalia Pazzaglia. Ora potete leggerlo o assistere al reading.
A Parco Peccei, un’area verde all’intero del quartiere torinese di Barriera di Milano, si trova un interessante intervento di riqualificazione progettato da Ferruccio Capitani, Rossella Maspoli e Monica Saccomandi: un’installazione di opere d’arte site specific realizzate dagli studenti di 15 Accademie italiane su iniziativa della Città di Torino, del Politecnico e dell’Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino.
Attraverso la storia La rinascita, la studentessa della Scuola Holden Natalia Pazzaglia ci racconta le trasformazioni di questo luogo.
La rinascita
Presentazione del progetto Promenade dell’arte e della cultura industriale
Fino alla fine dell’Ottocento ero solo cascine e campi.
Poi hanno fatto una strada e mi hanno dato un numero. E con la strada sono arrivate le fucine, fino a me, al civico 115 di Via Cigna. Gli uomini dovevano controllare le merci, così dicevano.
Fecero il muro, i varchi e le barriere.
Mi soffocarono, mi costrinsero, mi premettero sotto un nuovo quartiere.
L’inizio Novecento me lo ricordo con l’odore della polvere, e della terra, e della gente.
Arrivava e arrivava, la gente. I borghi Monte Bianco e Monte Rosa esplodevano. Barriera di Milano nasceva da quelle due borgate, tra la ferrovia e il cimitero. Mi calpestavano in tanti: ne ero felice.
Avevano fattogli stabilimenti industriali: c’erano le ferrerie e le Fonderie Piemontesi, quelle Subalpine e le Industrie Metallurgiche Torino.
Nel 1917 arrivò la FIAT. Iniziarono a lavorare acciaio per armi e automobili, e manufatti per ferrovie e arsenali.
Poi ci fu la guerra.
Ne vidi tanti di carri armati, ma di questo non voglio parlare.
Nel 1950 la FIAT mi vestì con altri capannoni e rinnovò i macchinari.
Stava iniziando un nuovo periodo, mi sentivo utile: le fabbriche che ospitavo stavano acquistando un nuovo splendore. La produzione ripartiva dopo il crollo che c’era stato alla fine della guerra.
Tutti dicevano che quel mondo di ciminiere e fumi sembrava l’America.
Negli anni ’70 iniziò la crisi delle ferriere. Cominciò la delocalizzazione. Ma si sentivano ancora i risucchi di gas nei tubi metallici, lo stridio delle valvole, la pulsazione degli stantuffi, il fragore delle seghe metalliche. I tram continuavano a filare contro lo scalpiccio degli operai, lancinanti sulle rotaie, verso la cacofonia delle stazioni. I metalli rombavano, tuonavano, sibilavano tra le volte delle fabbriche in boati e rantoli di ferro. Spiaccicavano, sminuzzavano, smantellavano lamiere e metalli, metalli e lamiere, lamiere e metalli.
Era fuoco, ingranaggi, presse e calore.
In quel periodo mi ammalai per i residui di cromo, gli idrocarburi e i metalli pesanti.
Poi gli uomini decisero di demolire i muri, i tetti, le pareti.
E fu polvere, rabbia e paura.
Tutto tremò in un’orchestra di folli, agitatissimi rumori.
E fu lo schianto lo schianto lo schianto.
Tam-tumb, buuuuum, tam-tuuumb.
E poi fu silenzio.
Volevano scappare: i meridionali, i veneti e quelli venuti dall’ Est.
Tutti volevano scappare.
Erano arrivati per un lavoro che non c’era più.
Nelle industrie torinesi c’era solo silenzio.
Rumore lo facevano di notte. Entravano nelle fabbriche e rubavano cavi elettrici, materiali metallici, componenti degli impianti.
Poi iniziarono a farlo anche di giorno. Saccheggiarono tutto.
Gli edifici furono smantellati, mi strapparono tutte le coperture.
Mi si aprì il cuore.
Erano i primi anni del 2000.
Passarono quasi dieci anni fino al 2010, la mia rinascita.
Dissero che dentro di me avrebbero costruito una passeggiata: Promenade, la chiamarono. Promenade dell’arte e della cultura industriale. Finalmente le persone non mi avrebbero visto solo come un luogo di fatica e di lavoro. Sarei diventato l’attrazione del quartiere. Indissero un concorso, chiamarono artistiche proposero installazioni. Volevano ridarmi un’identità.
Passarono due anni prima che iniziasse la mia bonifica.
C’era ancora la crisi. Ma nel 2014 io guarii comunque.
Finì la bonifica, crebbero gli alberi. Per la prima volta mi diedero un nome: Parco Aurelio Peccei.
La Promenade fu realizzata davvero, mi arredarono con le opere vincitrici del concorso.
Iniziarono con una Porta: nacque il “Cardo e Decumano”, un portale alto cinque metri, tre quadrati d’acciaio rosso intrecciati a formare una struttura tridimensionale, una porta a memoria dell’origine della città: l’antico accampamento romano.
Di quel periodo ricordo il profumo delle farfalle: dissero che sarebbero arrivate sulle aiuole di lavanda che avrebbero piantato in una delle mie colline.
Poi il tempo passò. Me ne rimane solo il sogno.
Un totem, ce l’ho. Si chiama “Mechanicalgesture”, una scultura di acciaio e cemento, i ricordi industriali nella forma di un sei, simbolo del parco e della Circoscrizione.
Sopra di me c’è anche una Cattedrale. Sono i resti del padiglione industriale. Il nome è rimasto, insieme ai ricordi degli operai delle mie fabbriche.
Mi sarebbe piaciuto ricordarli tutti, i lavoratori di Via Cigna 115.
Avrei voluto i loro nomi sulla mia pelle, sui miei muri.
Ma loro restano lo stesso: mi ricordo gli accenti del Sud, il loro chiacchiericcio, come sorridevano quando parlavano del mare.
Sulla Cattedrale ci sono le “Casette”, delle installazioni in metallo create dalle idee degli alunni delle scuole della circoscrizione 6.
“Dov’è casa?” Hanno chiesto loro gli artisti.
I bambini hanno risposto disegnando abitazioni marocchine, la torre di Shangai e pezzi di puzzle.
Nati e cresciuti a Torino, sono nutriti dai racconti dei loro genitori, che in Italia sono arrivati da grandi.
Su di me fa la guardia la grande torre con il serbatoio dell’acqua. All’esterno hanno inserito delle sagome di lamiera. Richiamano l’Articolo 1 della Costituzione, il diritto al lavoro e la fabbrica.
Di lavoro parla anche il mio muro a Nord, quello verso i magazzini dei Docks Dora.
Linea del Tempo si chiama. Descrive centocinquant’anni di storia industriale della città. Le hanno modellate i ragazzi delle medie, quelle terrecotte di forme strane. Sono cavi elettrici, rotaie, rocchetti, ingranaggi, caramelle e la pellicola di un film. Sono la INCET, la ferrovia Torino-Milano, la Girardini, la FIAT, la Wamar e la FERT.
Vedo gli sguardi stupiti, di fronte a quel muro, delle giovani donne che fanno jogging da me la mattina. Alcune portano il velo. I bambini vengono dopo la scuola, per divertirsi nell’area giochi o vicino alle Casette.
Oggi tre ragazzi ne parlavano dei loro fidanzatini sedute sulle mie altalene. Angelica, una mamma che viene tutti i pomeriggi, ascoltava musica mentre Karim, suo figlio, disegnava le montagne. Adrian, un rumeno molto simpatico, è venuto a fare esercizi. Sta perdendo peso: sua moglie sarà contenta.
Quando guardo il Cardo e il Decumano e la Linea del Tempo penso che di strada ne ho fatta, anche se da Via Cigna non mi sono mosso mai.
Eppure, quello che mi rende più felice, sono Adrian, Karim, Angelica e tutti gli altri che mi vengono a trovare. Quando arrivano sono contenti, non hanno i visi affaticati degli operai che ho visto passare per anni. Hanno il tempo per fermarsi a guardare la Basilica di Superga e la Chiesa della Salute unirsi, quando il cielo è chiaro, dentro di me, sulla linea dell’orizzonte.
Quando mi verrete a trovare, le vedrete anche voi.
Natalia Pazzaglia
Scuola Holden